05 Nov Il problema del pagamento delle retribuzioni a professionisti non residenti
Si pone spesso nella pratica l’esigenza di valutare se le prestazioni di lavoro autonomo professionale rese da
soggetti non residenti siano assoggettate a tassazione anche in Italia.
La problematica non riguarda solo il professionista, ma anche la società che riceve la prestazione in qualità di sostituto d’imposta.
Le norme che regolano la fattispecie sono rappresentate:
– dall’art. 23 comma 1 lettera d) del TUIR, che assoggetta a tassazione in Italia in capo ai non residenti le
prestazioni di lavoro autonomo esercitate nel territorio dello Stato;
– dall’art. 25 comma 2 del DPR 600/73, che assoggetta a una ritenuta a titolo d’imposta del 30% i compensi per
lavoro autonomo corrisposti a non residenti, escludendo però i compensi per le prestazioni effettuate all’estero e
quelli corrisposti a stabili organizzazioni italiane di soggetti non residenti.
Dalla prima delle due norme citate si evince che il criterio di territorialità previsto dalla normativa interna per i
redditi di lavoro autonomo è quello del luogo di svolgimento dell’attività.
Se, quindi, il professionista svolge la sua prestazione all’estero, il reddito non è tassato in Italia.
Questo fatto si traduce nell’assenza di alcun obbligo di sostituzione d’imposta per la società che riceve la prestazione, come afferma in modo espresso l’art. 25 comma 2 del DPR 600/73.
In questi casi, secondo la R.M. n. 12/762 del 3 febbraio 1977, la società residente deve acquisire, oltre alla certificazione della residenza fiscale del professionista, una dichiarazione dello stesso che attesta che la prestazione non è stata svolta in Italia.
Diverso è il caso in cui il professionista estero svolga la sua prestazione in Italia.
In questo caso:
– la normativa interna prevede la tassazione italiana, assolta con la ritenuta a titolo d’imposta del 30%;
– rimane, però, ferma la possibilità di evitare la tassazione ricorrendo alle Convenzioni contro le doppie imposizioni.
Le Convenzioni stipulate dall’Italia contengono, generalmente, una clausola per cui la tassazione nello Stato di svolgimento dell’attività è tale solo nel momento in cui il professionista abbia in tale Stato una base fissa.
Non vi è dubbio che rappresenta base fissa uno studio che un avvocato, medico, ingegnere ecc. ha in Italia.
Possono però darsi situazioni intermedie in cui il professionista si reca nella sede del cliente per svolgere la
prestazione (o parte di essa): in questi casi il carattere “fisso” della presenza nello Stato estero è da ricollegare al
potere di utilizzare i locali, anche di proprietà altrui, in modo sufficientemente continuativo.
Così, la semplice visita al cliente italiano per verificare la documentazione, controllare lo stato di esecuzione dei lavori o definire alcune parti del compenso non può mai portare alla conclusione per cui il professionista estero ha in Italia una
base fissa; a diverse conclusioni si dovrebbe invece giungere se, ad esempio, uno studio italiano pone a completa disposizione del professionista estero un locale dove svolgere la propria attività.
Per evitare contestazioni è consigliabile delimitare la presenza del professionista estero, sia a livello temporale, sia a livello di ampiezza di locali e attrezzature messe a sua disposizione, esplicitando tali clausole nella lettera di incarico.